"La consapevolezza che, non diversamente da una pianta, io pure subisco i danni delle intemperie, posso seccare, appassire, perdere pezzi, e soprattutto:non muovermi come vorrei. Se il giardino era stato il luogo dove contemplare metamorfosi e impermanenza, adesso l'accelerazione della corrente mi costringe a rendermi conti di esservi io stessa immersa. Non sono più un osservatore esterno, qualcuno che dispone e amministra. Mi trovo io stessa in balia. Questo ispira un sentimento di fratellanza con il giardino, acuisce la sensazione di farne parte. Altrettanto indifesa, altrettanto mortale. Meno sola, in un certo senso. Altrettanto sola?"
Uno splendido diario che racconta in modo elegante, semplice e diretto l'ultimo periodo di vita di questa donna morta il 26 luglio del 2016 per una malattia incurabile.
Il libro è un susseguirsi di pensieri, riflessioni, sentimenti di un'osservatrice che dopo aver tanto osservato il suo giardino si trova ad osservare proprio la sua Vita, una Vita che giorno dopo giorno scorre via.
Lei che nel giardino si era immersa scegliendo di vivere una Vita isolata ad un certo punto si trova davanti alla malattia e allora quel giardino diventa il luogo dove essere accolta, ma anche il luogo dove scoprire la nostra caducità:
"Il corpo è destinato al declino. L'anima, dicono alcuni, è venuta sulla terra per avere l'opportunità di capire, guarire, purificarsi. Il corpo, a viaggio finito, è da buttare. E magari si trascina dietro anche l'anima, non importa quanto bella."
Il titolo "Al giardino ancora non l'ho detto", che prende spunto dalla poesia di Emily Dickinson - I have not told my garden yet e tutto il libro sono la dichiarazione al suo giardino che un giorno il giardiniere non terrà fede al suo appuntamento:
"non sono più il giardiniere. Sono pianta tra le piante, anche di me bisogna prendersi cura."
sono la difficile presa di consapevolezza, accettazione o meno della malattia con cui convivere fianco a fianco:
"La malattia si distingue in questo: impone un'accelerazione a un processo di perdita che, semplicemente invecchiando, resterebbe impercettibile."
Sono l'eredità che questa scrittrice ci ha lasciato. Un'eredità da leggere tutta di un fiato ed io ho scelto un pò di questa eredità, per me e per chi vorrà leggere.
Le sue riflessioni sulla vita: "Forse si arriva a rendersi conto che, non importa quanto depauperata, questa vita è l'unica che abbiamo. E insorge il rammarico di privarsi dell'unica finestra sul mondo, non importa quanto ridotta a pertugio, a buco della serratura. La fede in una continuazione o meno è irrilevante: è a questa vita che siamo attaccati, questo il mondo da cui ci stacchiamo a malincuore"
"Come vivrei se potessi camminare di nuovo. Credo che vivrei con gratitudine, con la consapevolezza che la mia vita è ricca così com'è, senza il tarlo sotterraneo del dubbio... Ma non c'è bisogno di guarire per provare questo, lo sto già vivendo anche con la sedia a rotelle, nonostante non sia la mia vita esattamente com'era quando lavoravo in giardino e tenevo l'orto."
Sulla bellezza della natura: "Resta solo il mondo. Quella parte di mondo, di natura, che è fonte di gioia purissima, disinteressata credo, o forse fine a se stess, non asservita al criterio di utile.."
"L'ho capito solo adesso. La mia felicità in giardino era sincera però minata da un senso di incompletezza. Adesso me ne sento riaccolta. ... Il giardino, immagine miniaturizzata del creato, ha confermato di essere l'unica duratura, profonda, appagante relazione possibile. La catastrofe mi ha in un certo senso sanata."
"Nella solitudine del giardino, all'ombra di una quercia, senza imporre nulla a nessuno, è piacevole abbandonarsi a una deliziosa spensieratezza, lasciare che idee e immagini si formino e disfino con la stessa inconsequenzialità delle nuvole nel cielo."
Sulla "bellezza" della stessa malattia: "La cosa bella di questa malattia, mi viene in mente leggendo un libro sui muschi nei giardini giapponesi, è che mi costringe a fare quello che non osavo ma desidero: starmene dove sono."
Sulla bellezza della Vita: "... che dopotutto siamo arrivate dal nulla, ed è stato lo stesso un miracolo potersi affacciare sul mondo, almeno per poco."
Su come abbiamo vissuto e su cosa ci ha portati lì dove siamo, fianco a fianco della malattia degenerativa:
"No, non ha senso rinnegare ciò che è stato. E mi rendo conto che, di fronte alla malattia mortale, la tentazione è proprio quella di darne la colpa alla strada che lì ci ha portati. Forse, raggiunto il deserto della malattia, cui probabilmente porta quasi ogni strada, rinnegare il cammino percorso arriva spontaneo ma fallace."
"Un sospetto: e se questa malattia mi fosse venuta per salvarmi da tutto quello che mi imponevo di fare, da tutto quello a cui non osavo negarmi? La ribellione a una me stessa che mi costringeva ad andare dove non avevo voglia di andare?"
Su se stessa:
"Quello che provo adesso è questo: nulla di esterno mi potrà aiutare. Se una guarigione arriverà, sarà da dentro me stessa. Dal mio riuscire o meno a riparare la radice. Sento che la mia è una malattia spirituale. Nasce da un errore. Ho perso i piedi quando ho imboccato la strada sbagliata."
"E mi rendo conto come siamo noi a scegliere, di volta in volta, come vivere quanto ci viene dato. Questo imprevisto: a me la scelta tra farne un momento di frustrazione, o uno spiraglio di libera contemplazione nell'ora più bella del giorno, sospesa com'è tra il buio e la luce."
"Forse Pia non ha ancora contattato abbastanza profondamente il suo genius loci, il suo Sé divino, colui che, come il giardino, sa esattamente cosa serve, cosa piantare, cosa togliere e come sistemare perfettamente ogni elemento dentro di noi."