lunedì 28 ottobre 2019

Rubrica: Ci provo con ... " Chilografia" di Domitilla Pirro

Nuovo appuntamento con la rubrica a cadenza mensile "Ci provo con..." ideata da Chiara del blog "La lettrice sulle nuvole" in cui si legge un autore o un'autrice per la prima volta.

Avevo letto una recensione di Chilografia nel blog di La lettrice geniale e avevo messo il libro nella lista dei "da leggere" in Goodreads ed ecco che la rubrica mi ha dato l'occasione per avvicinarmi ad un'autrice che non conoscevo e ad un tema "ingombrante" come quello che ci viene proposto nelle 202 pagine.
Una storia che a fine lettura suggerisco solo a persone con stomaci forti.

Poi c'è una parola che è corpo ma si comporta da cosa. Palma.
Palma era: una bambina di undici anni, otto mesi e nove giorni, felice di cominciare le vacanze di Natale, figlia di Sauro e sorella di Clara...
Palma è: l'immobilità dei sassi di fiume, la durezza precaria di un gheriglio, la friabilità delle ossa vecchie, la vuota compostezza della lettera O. Accucciata ai piedi dei gradini con le mani sulle orecchie e gli occhi molto aperti. 



Trama
Questa è una storia fatta di chili: la storia di Palma, che cresce in una normalissima famiglia disfunzionale, tra una madre volubile, un padre lontano e una sorella fin troppo perfetta. Palma mangia, e nel suo turbolento percorso di formazione, in cui scorrono trent'anni di Roma e d'Italia, trova in un videogioco la via d'uscita dall'incubo delle relazioni, del giudizio, del peso. Attraverso il gioco scopre le chatroom: lì conosce Angelo, un ragazzo con la passione per le donne grasse, con cui inizia una storia vera e al quale ha il coraggio e la gioia di mostrarsi per come è. Ma non è facile distinguere l'amore dall'ossessione, e presto il rapporto con Angelo arriverà a farsi vessatorio. Palma saprà risolverlo a modo suo, mettendoci il cuore.


Cosa ne penso
Protagonista di "Chilografia" è Palma o Palla, come viene ribattezzata  dagli altri, ed i suoi  chili.  Il romanzo narra la sua storia dalla nascita violenta e prematura, provocata da un placenta previa, che la porta nel mondo con un peso inferiore alla norma, 1,8 chili,  fino all'epilogo finale, inverosimile e nello stesso tempo reale  e tangibile grazie alla scrittura della Pirro.
Leggere Chilografia è come fare un percorso, un cammino accanto a Palma senza avere la possibilità di toccarla, fermarla, gridarle "basta" perché la voglia di scrollare Palma, di abbracciarla l'ho sentita forte diverse volte durante la lettura mentre l'unica cosa che ho potuto fare  è stato andare avanti e avanti fino all'ultima pagina. 
I capitoli sono brevi, concentrati. In ognuno viene raccontato un  evento nella vita di Palma: la sua nascita, l'inizio della scuola, la separazione dei genitori, la morte del nonno, la cresima, la laurea, il tempo degli approcci nelle prime chat  e ancora il matrimonio della sorella e l'incontro con l'amore, Angelo:

Palma era una bestiola che doveva essere governata, perché c'era qualcuno finalmente che si occupava di lei e decideva cos'era che le faceva bene. Angelo questo lo spiegava in modo molto chiaro.

Palma ed il cibo. Palma che prende peso, schiacciata dall'anaffettività di una madre troppo concentrata sulla propria felicità, che fin da subito ci mostra come il cibo possa diventare il surrogato di tutto quello che non sappiamo donare in affetto, protezione ed attenzione.
Schiacciata dall'anaffettività della sorella, Clara, che descrive così l'arrivo di Palma:

Lei l'altra, il pezzo forte per l'appunto, ora sputazzante tra le braccia della madre; lei Palma, che detta così sembrava una piccola pianta ed invece era una piccola sorella, una piccola biglia di ciccia e bava e pochi denti, pochissimi.


Clara che sarà  il modello, tanto odiato, costantemente presente nella vita di Palma, giorno dopo giorno.  Schiacciata dall'anaffettività di un padre che dopo la separazione, fortemente sentita da Palma, lo avrebbe voluto vicino, sparisce.
Schiacciata  infine da un amore malato quello di Angelo che la porterà a far arrivare l'ago della bilancia fino al nr 147.

Il cibo è il filo conduttore di tutto il libro. Cibo, cucina, frigo, dispensa tutto questo è meglio di quello che circonda Palma fin da piccola. Il cibo e la solitudine di Palma, il suo non riconoscersi come persona, il percorso autodistruttivo, tutto questo viene raccontato con una scrittura brillante.

Se da un lato finire il libro, soprattutto nelle ultime pagine, mi è costato una vera  fatica fisica per le emozioni forti, viscerali che ho vissuto, dall'altro la scrittura della Pirro mi ha folgorato.
Capitoli brevi, frasi telegrafiche una dopo l'altra,  descrizioni concise. Ogni parola è essenziale e necessaria per rendere la carica emotiva che raggiunge l'apice nel finale, come un pugno nello stomaco.

Una nota per l'utilizzo del  "romano" nei dialoghi. Il romano scritto e letto, per me che sono romana, mi ha avvicinato  di più ai personaggi ma nello stesso tempo ha reso alcuni passaggi ancora più sguaiati, decadenti.
Ed un'ultimissima nota alla veste grafica, che ho trovato geniale.  I capitoli sono numerati con il numero segnato dall'ago della bilancia di Palma nel momento in cui viene raccontata. E così abbiamo il capitolo 1,869, il capitolo 19, il capitolo 37, e via via fino ad arrivare al 147.
Una vera e propria chilografia: una vita espressa in  chili.



A seguire il banner creato da  Dolci Carloni che ringrazio ed a seguire i blog che questa mese partecipano alla rubrica, andate a dare uno sguardo




La biblioteca del libraio
La lettrice sulle nuvole
Letture a pois
Libri al caffè
Made for books

domenica 13 ottobre 2019

Recensione: "Fuoco al cielo" Viola di Grado

Un libro potente, forte, visionario, un pugno allo stomaco che fa male ma che ci sveglia portandoci a  cercare gli accadimenti, i motivi, le ragioni nella storia non troppo lontana da noi.

" Lui si pulisce e finisce di preparare la valigia e se ne va, la porta si chiude, lei torna in cucina, prende il coltello da terra, basta un colpo secco, basta poco per togliersi di mezzo, fallo e basta, ma poi sente di nuovo quel suono, un sibilo, come un grido nelle ossa, come qualcosa che ancora chiede ascolto, e decide di restare viva, viva almeno un po', viva come adesso, cervello e battito cardiaco, basta questo per restare al mondo."



La trama 
Tamara e Vladimir vivono a Musljumovo, remoto villaggio al confine con la Siberia, tra caseggiati in rovina e fabbriche abbandonate. Vivono in un’area geografica per decenni assente dalle mappe: quella della “città segreta”, luogo sinistro da cui era vietato uscire e comunicare con l’esterno, responsabile negli anni ’50 e ’60 di ben tre catastrofi nucleari. Vladimir, infermiere di buona famiglia, è arrivato da Mosca, scegliendo di prendersi cura di chi non ha niente, delle persone dimenticate dal mondo. Tamara, insegnante, è invece nata e cresciuta nel villaggio, e abituata a pensare che ogni cosa sia destinata a contaminarsi e guastarsi velocemente. Incontrandosi, i due vengono sorpresi da una passione totalizzante che si appropria di ogni pensiero, e accende un bagliore salvifico persino lì, nel luogo più radioattivo del pianeta, in mezzo ai resti di una natura satura di veleno. Questo sentimento così tenace, che sembra schermarli dalle insidie del reale, li rafforza e li divora al tempo stesso, finché un evento prodigioso arriverà a sconvolgere le loro vite e le loro certezze.
Ispirato a un fatto di cronaca che ha disorientato il mondo, Fuoco al cielo racconta del male ubiquo che appartiene alla Storia ma che si rintana anche all'interno di ogni amore assoluto: perché la “città segreta” non è solo un luogo reale di distruzione e segregazione, ma anche il nodo più intimo e pericoloso di ogni relazione, dove i confini tra il sé e l'altro si confondono e può bastare una parola, un gesto, un grumo di silenzio per far crollare ogni cosa o metterla per sempre in salvo

La scelta del libro
Come quasi tutti gli ultimi libri che ho letto anche questo fa parte dei 6 libri, sezione narrativa, che partecipano al premio delle "Biblioteche di Roma" 2019.



Cosa ne penso
Viola di Grado lo dice subito, nelle prime pagine: "cervello e battito cardiaco, basta questo per restare al mondo" perché il romanzo può essere letto come un inno alla Vita nonostante tutto. Un inno alla Vita anche quando questa viene negata ed uccisa, perché se la tua identità viene violata, se la tua storia viene cancellata, se intorno a te la morte vive a braccetto con gli uomini allora se hai ancora un cervello ed un battito cardiaco sei fortunato, sei vivo. 
Oppure un inno alla morte, una morte decisa deliberatamente, consapevolmente dai pochi che nel mondo decidono le sorti dei molti, senza coscienza, senza memoria storica. 

Protagonisti di questo romanzo sono Tamara, Vladimir ed il loro amore. 
Un amore malato che nasce e cresce nella "città segreta", un luogo di cui non conoscevo l'esistenza prima di questa lettura.  
La città segreta o chiusa di cui ci parla Viola di Grado è  Musljumovo, una delle tante città segrete esistenti in Russia create nel periodo della guerra fredda. In questo territorio, che  è ancora oggi uno dei luoghi più inquinati al mondo, sorgevano ben cinque reattori nucleari all'uranio moderati a grafite, destinati alla produzione di plutonio. 

"La città segreta era recintata, come le fortificazioni medioevali che mettevano al riparo dai nemici. Ma il nemico era lì dentro, in quelle strade, erano cesio e stronzio e plutonio, polveri invisibili che saturavano l'aria, ammorbavano i fiori, si accasavano nei polmoni. Dentro la città segreta c'erano quasi tutti i materiali nucleari della Russia. 
Un tesoro di morte custodito in silenzio"

In quest'area ci furono tre disastri nucleari. Il più violento fu quello del 29 settembre 1959 e da qui, da questa data ed in questi luoghi si svolge il racconto di Fuoco al cielo il cui titolo è per l'appunto la descrizione di ciò che videro i cittadini subito dopo l'esplosione: "il cielo luccicava oltre la finestra chiusa. Verde acido, verde scuro, indaco, verde prato  sbiadito. Un arcobaleno sinistro aveva acceso la notte. Il verde era dappertutto. Aumentava, pulsava, come se il cielo si fosse fatto più vivo e sofferente." 


Tamara è nata e cresciuta nella città segreta, Musljumovoun villaggio di contadini, un luogo dove le persone più povere e quindi deboli venivano portate e pagate, con un sussidio statale, per restare, per non parlare,  per dimenticare la loro identità e diventare numeri. Un luogo in cui si entrava e si usciva solo con un pass ma in cui non era possibile entrare. Un luogo dove uomini, donne, bambini avevano ed hanno un: "DNA marcio, un albero che ha succhiato plutonio"
Vladimir invece è un infermiere benestante che decide di andare a Musljumovoun per aiutare, perché buono. 
"Ed era buono perché non era povero. Quando hai soldi puoi curarti di cose come l'anima o il giardino"
I due si incontrano in una mensa e si innamorano, di un amore forte, potente, esplosivo e malato come malato è il luogo in cui vivono, il cibo che mangiano, l'aria che respirano.  Tutto intorno a loro è contaminato, decadente, usurato, consumato, destinato a morire, il paesaggio naturale, la foresta, il fiume, la natura malata nella sua bellezza che è come un quadro in un museo che non si può toccare. 



Un amore fisico che solo così sembra potersi affermare perché l'unico modo, che Vladimir e Tamara hanno per esistere è viversi attraverso il corpo, usandolo anche in modo violento, consumandolo, violandolo. 
Durante la lettura ho sentito molto forte la fisicità del libro. 
Un libro fisico lo definisco dove attraverso il corpo si afferma la Vita: cuore, polmoni, sesso, come se  nella città segreta fosse possibile esistere solo così. Vietato sentire le emozioni, vietato farsi domande, vietato rispondere alle domande, "rispondere alle domande rendeva quei corpi persone" vietato dare un'identità, vietato amare, sognare, credere nei sogni. E nello stesso tempo attraverso il corpo si vedono i segni del male ubiquo "diabete, paralisi, ossa fragili e cuori invasati. Gambe molli, bolle sulle guance, polmoni grigi guasti".
Tamara e Vladimir sono i simboli della Vita malata vissuta nella "città segreta".

I due protagonisti vivono in questa realtà malata, in un amore vuoto, fino a quando un evento impensabile, incredibile, un dono inatteso entra nelle loro vite.
Un evento che porterà Tamara a credere ancora in quel Dio che ha dimenticato la sua terra, che la porterà a ripetere costantemente come un mantra: "andrà bene, andrà tutto bene; tutto bene" ed in questa ultima parte ho trovato la parte più visionaria della scrittrice


Viola di Grado ha una scrittura asciutta, diretta, immediata che raggiunge il lettore quasi "violentandolo". Ogni cosa è narrata senza abbellimenti, senza fronzoli senza fare sconti. Il lettore viene  inchiodato davanti all'abominio umano e non si può tirare indietro bisogna continuare a leggere ad andare avanti per sapere dove,  quando e se finirà.   
Un libro che ci tira fuori dalla nostra zona comfort, che non permette di chiudere gli occhi per credere che non è accaduto, che costringe il lettore a farsi domande ed a cercare risposte. 




domenica 6 ottobre 2019

Recensione: "Il fruscio dell'erba selvaggia" di G. Munforte

La recensione di questo libro sarà breve e laconica, come è stata la lettura: vuota. 






La trama

Romanzo dalla struttura inedita, composto da sequenze narrative che si intrecciano e risolvono, alla fine, in un quadro unitario, "Il fruscio dell'erba selvaggia" - il titolo viene da un verso di Evtushenko - tesse i destini di personaggi che, sullo sfondo di una Milano periferica, cupa e malinconica, vivono un'esistenza in cui innocenza e crimine, onore e vergogna, redenzione e autodistruzione si rovesciano continuamente, come guanti di cui è impossibile distinguere il diritto e il rovescio. Nella prima parte, intitolata "Nero uno", il suicidio dell'amato zio - un uomo che, dopo aver abbandonato moglie e figli, viveva ai margini della legge nel quartiere della Bovisa degli anni Sessanta - turba al tal punto il narratore da spingerlo a indagare sulla sua vita. La scoperta di un insospettabile alter-ego dello zio lo segnerà profondamente, portandolo a una scelta decisiva per il suo futuro. La seconda parte, "Nero due", è il fulcro del romanzo. La scena si sposta in un ospedale degli anni Novanta in cui un ragazzo fraternizza con un uomo che genera in lui curiosità e fascinazione. 

Questi gli racconta la sua vita prima di orfano cresciuto dai frati, poi di criminale; di lí a pochi mesi lo trascinerà in una vicenda nella quale il ragazzo, in nome dell'amicizia nata in corsia, metterà a rischio la propria vita. In "Nero tre" il romanzo giunge al suo epilogo, offrendo i tasselli esplicativi dell'intera narrazione. L'originale disposizione narrativa scelta da Munforte alimenta il forte senso di inquietudine che pervade questo romanzo che, al pari di un dipinto di Hopper, intreccia la solitudine umana alla metafisica del paesaggio. Con una scrittura capace di farsi concitata nei momenti di tensione, e lirica e poetica in quelli di introspezione psicologica, "Il fruscio dell'erba selvaggia" mostra una galleria di personaggi indimenticabili - le ambigue figure dello zio e del frate e quella del giovane segnato da un destino inaggirabile di violenza ed emarginazione - in cui la vita si offre nell'assoluta contingenza delle scelte e nell'irrisolvibilità del suo mistero.



La scelta del libro
Anche questo libro è stato scelto tra i sei in lizza per il "Premio biblioteche di Roma" 2019, sezione narrativa, ma questa volta non sono stata fortunata.


Cosa ne penso
Comincio subito col dire che il breve romanzo, 144 pagine, non mi è piaciuto.
Le uniche note positive che mi hanno permesso di completare la lettura sono state: la brevità del romanzo e la scrittura chiara, diretta, sia nei dialoghi che nelle descrizioni. In questo Munforte ha delle potenzialità che non sono bastate per sollevare il romanzo.

Per tutto il resto, a mio avviso, il testo rimane incompiuto e carente. Non mi è piaciuta la storia, non mi è piaciuta la costruzione, non mi ha lasciato nulla, solo la sensazione di aver perso tempo che avrei potuto dedicare ad altro.
Soprattutto la costruzione narrativa, che dovrebbe fare la differenza e l'originalità, non mi ha convinto, anzi genera confusione. Il lettore per rimettere a posto i pezzi ed avere il puzzle  completo deve tornare indietro e avanti e poi di nuovo indietro e nonostante questo io non sono riuscita a tirare i fili della storia per annodarli in una fine compiuta.

Non è un giallo, non è un thriller, non è un poliziesco è uno spaccato, non riuscito, di un'umanità in declino, di un ambiente che contribuisce a questo declino ma che alla fine non trova una sua evoluzione e quindi non affronta neanche i temi decantati nella sinossi.
Un solo tema emerge con forza: il rapporto anzi il non rapporto con la fede, una fede che non ha spazio nello spaccato descritto da Munforte, un Dio che viene ucciso  dalle azioni e dai pensieri dei personaggi.
Chiusa l'ultima pagina ho tirato un sospiro di sollievo per essermi liberata del "Fruscio dell'erba selvaggia".


Allego il link dell'incontro che c'e stato tra l'autore ed i circoli letterari delle biblioteche di Roma, incontro svoltosi presso la biblioteche "Nelson Mandela" giovedì 03 ottobre 2019: