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domenica 24 novembre 2019

Recensione: "Isola di Neve" di Valentina d'Urbano

Tengo molto a questa recensione perchè ho amato  "Isola di neve". La storia mi ha accompagnato ovunque, onnipresente nei miei pensieri. I personaggi si sono materializzati ed ho seguito pagina dopo pagina, con tante emozioni il dispiegarsi delle loro vite.
E' il secondo libro che leggo della d'Urbano, il primo è stato "Acquanera" e non mi ha deluso anzi ho rafforzato l'ammirazione verso questa giovane scrittrice romana che sa costruire delle storie cinematografiche, con una scrittura che cattura dalla prima all'ultima pagina.


Con i fili tra le mani





La trama qui


La scelta del libro:
Ho scelto un secondo libro della d'Urbano perchè avevo bisogno di una storia che mi facesse sognare sulla scia del penultimo libro libro letto "La casa delle Farfalle" di Silvia Montemurro.


Il mio punto di lettura:
Gli elementi che compongono il romanzo sono tantissimi e faccio fatica a mettere in ordine le idee per rendere una recensione che sia il più fedele possibile al mio pensiero.


La storia è ambientata su due isole gemelle nel Tirreno:  l'sola di Novembre e quella di Santa Brigida. 
La prima è aspra, dura, sferzata dal vento  dove la vita si misura costantemente con gli elementi della Natura con il mare, da cui gli isolani traggono il sostentamento attraverso la pesca. Gli abitanti adattati alla vita sull'isola sono  segnati sia nel fisico, invecchiati prima del tempo, con la pelle scura trasformata dal sole e dal mare sia nello spirito, sono essi stessi induriti, chiusi, a tratti feroci. 
L'isola di Santa Brigida, davanti a Novembre, è interamente occupata da un imponente carcere che disegna i contorni, le forme e da l'essenza stessa all'isola.  La prigione accoglierà un ultimo detenuto, Andreas, e poi sarà dismessa lasciando l'isola vuota, diventerà "un mostro dalle finestre buie" inglobata nella vegetazione, assaltata dal mare, in decadimento.

Le vicende sono narrate in due archi temporali  distanti. Il 1952 in cui troviamo  Neve e Andreas ed il 2004 con Edith e Manuel.
La scrittrice è bravissima a raccontare le due storie contemporaneamente alternando i capitoli, senza togliere nulla all'una o all'altra, dando il giusto spazio ad entrambre. Due storie parallele dove i quattro protagonisti seppur lontani nel tempo e nello spazio sono legati tra di loro ed il lettore piano piano tesserà la trama di questi legami.

Neve, diciassette anni  chiamata così da tutti, soprannominata Tempesta da Andreas, il cui vero nome sarà svelato alla fine   e Andreas, ventotto anni, un  violinista tedesco dal talento eccezionale che suona il violino nelle lunghe notti che trascorrerà nella  cella, sono i protagonisti della storia che si dipana dall'aprile del 1952, quando  Andreas arriva sull'isola di Santa Brigida  come prigioniero, all'ottobre dello stesso anno quando  viene trasferito a  Roma e poi Dresda perchè il carcere è in dismissione.
La d'Urbano ci racconta  la tenacia e la determinazione di Neve, nel voler vedere, conoscere, capire  il detenuto così diverso dagli uomini che le sono intorno e che vivono sull'isola. La prigione, le sbarre, l'isola di Santa Brigida  raggiungibile solo attraverso la barca, la ferocia del padre, i pregiudizi degli isolani su Andreas, non la fermano. 
Ci racconta i modi galanti e l'attenzione di Andreas verso questa ragazza, che non conosce ma che osserva con sguardo attento e ascolta con attenzione. 
Andreas e Neve sono i personaggi che ho amato di più. Lui per l'essenza romantica e decandente, lei per lo spirito indomito e libero.
La determinazione è un tema che emerge forte, attraverso le figure femminili, che ho ritrovato nel personaggio di  Edith, violinista tedesca di Dresda, che si reca sull'isola di Novembre nell'ottobre del 2004 per ricostruire la storia di Andreas e soprattutto per capire il mistero del violino di Andreas che non è tornato indietro a Dresda e che quindi, presumibilmente, non si è spostato da Santa Brigida.
Edith sull'isola conosce Manuel, arrivato nella casa dei nonni perchè scappato da un evento drammatico, ed insieme inizieranno le ricerche con non poca riluattanza  da parte di Manuel. 
Edith, come Neve, non si lascia intimorire dall'isola, dal carcere, dal mare, dagli abitanti ermetici, dallo stesso Manuel e va dritta per la sua strada:

"Se stai pensando che contavo su di te, sbagli. Io qui ci sono venuta da sola. Sapevo  che avrei dovuto adattarmi a fare cose nuove. Tu pensa agli affari tuoi, io imparo quello che c'è da imparare per conto mio. Meglio da sola che con gente che non fa altro che trattarmi male, dalla mattina alla sera."


La scrittrice accomuna i quattro personaggi attraverso alcune piccoli dettagli.
Edith e Neve sono donne determinate, forti, pronte ad accogliere senza pregiudizi.
Manuel e Andreas sono personaggi inizialmente ambigui, con un mistero da svelare, una storia passata da comprendere.
Tutti e quattro hanno tratti somatici simili, nordici, la stessa Neve, nata e cresciuta sull'isola ha lunghi capelli biondi che la distinguono completamente da tutti gli altri isolani, come se l'autrice avesse voluto distinguerli, renderli diversi perchè destinati ad affrontare l'oscurità che li circonda e le proprie paure.

Il mistero è un elemento sempre presente che la d'Urbano sa utilizzare magistralmente. In entrambi i romanzi letti  si viene  attratti dal bisogno di capire, di svelare i segreti e qui, in particolare l'ambienazione  dell'isola con il carcere decadente,  il violino di cui si sono perse le tracce, la musica suonata durante le notti insonni di Andreas, contribuiscono ad amplificare l'effetto nebuloso e misterioso. 

Consiglio vivamente la lettura di questo romanzo per lasciarsi cullare e trasportare dalla musica di Andreas nel buio della sua cella e scoprire la bellezza  che c'è oltre il buio.




giovedì 14 novembre 2019

Recensione: "La casa delle farfalle" di Silvia Montemurro

"Sarai una farfalla bellissima, dolce e delicata. Il tuo volo  sarà breve, ma intenso. Toccherai terra solo una volta, per  generare la vita. Come fanno le farfalle. E soffrirai, quando dovrai lasciare la crisalide. Come facciamo tutti."


conifilitralemani



La trama qui:
Anita ha trent'anni e insegna biologia all'Università di Colonia. Non ama gli aerei e soffre di vertigini, ma non saprebbe spiegarne il motivo. Quando la sua vita viene sconvolta da un tragico evento, in crisi lascia Hans, il suo compagno, per tornare nei luoghi dov'è cresciuta - in treno naturalmente. Lì, sul lago di Como, è decisa a ritrovare se stessa. Mentre passeggia cullata dallo sciabordio delle onde, incontra una bambina dai tratti giapponesi e dalla voce meravigliosa. Si chiama Yoko e, proprio come lei, è segnata da una ferita difficile da rimarginare. Presto Anita, leggendo il diario della nonna Lucrezia, scoprirà di essere legata a Yoko da una storia rimasta sepolta per anni, che unisce le loro famiglie. Tutto ha origine nel 1943, quando la casa di Lucrezia, la villa delle Farfalle, viene occupata da alcuni ufficiali tedeschi. Tra lei e Will, uno degli ufficiali, nasce un sentimento dirompente, ma la guerra sembra ostacolarli...



Cosa ne penso:

La storia scritta dalla Montemurro è ricca: piena di eventi; di segreti, che vengono svelati uno dopo l'altro fino alle ultime pagine; di figure femminili importanti ognuna con il suo vissuto ed il suo passato e tutte intrecciate tra loro. 
La struttura del romanzo mi ha ricordato molto i libri di Cristina Caboni ("La custode del miele e delle api", "Il giardino dei fiori segreti"): all'inizio di ogni capitolo viene inserito il nome di una farfalla  spiegandone i caratteri e lasciando un consiglio di vita per tutti. La cosa mi ha incuriosito e mi ha spinto a cercare le immagini di queste farfalle, così ben descritte in poche righe, e quando un libro mi incuriosisce ed apre le mie ricerche per me è sempre positivo.

La Montemurro, soprattutto dalla metà in poi, non lascia respiro al lettore che viene investito dalle confessioni dei personaggi permettendogli di ricostruire gli eventi. Eventi che sono ambientati in due periodi  temporali diversi: il passato (dal 1943 in piena guerra fino al 1966) di Lucrezia madre di Margherita, Will,  Alfonso,Yukari madre di Cho; il presente (2014) di Margherita e della figlia Anita nipote di Lucrezia, di Yoko, figlia di Cho, nipote di Yukari

Tutto parte nel 1943 durante la seconda guerra mondiale nella "Villa delle farfalle" dove ritroviamo Lucrezia, che vive nella villa, Will un ufficiale tedesco che ha la base militare nella villa e Yukari una  bambina giapponese portata da Will nella villa dopo essere stata salvata da una tragedia familiare.
Questi tre personaggi così lontani per nascita, cultura e nazionalità si ritrovano nella villa nel periodo della guerra, le loro tre vite si intrecciano dando il via alla storia ed agli eventi che si ripercuotono, fino al presente, nella vita di Anita e nella vita di Yoko. 
La villa ed il farfallario sono i due elementi presenti costantemente nel racconto: la villa accoglie, ascolta, custodisce  tutti i segreti ed a volte sembra vivere di vita propria; il farfallario  luogo della calma, della salvezza, della rigenerazione.

conifilitralemani
Ho trovato il tutto  ben organizzato ed anche i personaggi ben caratterizzati. 
Ho provato sentimenti alterni ed invertiti verso  i personaggi femminili più antichi  di Lucrezia e Yukari. 
All'inizio ho provato tenerezza e ammirazione per la cura e l'attenzione, quasi materna, che Lucrezia  mette nel custodire ed educare la giovane giapponese Yukari, mentre ho provato un risentimento forte verso il modo di comportarsi di Yukari.
 Andando avanti con la storia ho provato l'inverso dei sentimenti: tenerezza e pena per Yukari, per come viene isolata, rifiutata da Lucrezia e quasi odio per Lucrezia. 
Da spartiacque ai diversi comportamenti delle protagoniste un evento che segna entrambe  e la loro relazione.



Il romanzo tiene sullo sfondo i temi della violenza e dell'amore nel periodo della seconda guerra mondiale, in primo piano rimangono le storie delle donne: tre generazioni di donne Angelica, Margherita, Anita e Yukari, Cho e Yoko.

La scrittura della Montemurro è leggera,  scorre velocemente sotto gli occhi ed il libro si fa leggere da solo,  complice la voglia di scoprire l'intreccio ed i segreti.
Mi è però mancato qualcosa, non so dire cosa, forse troppi eventi e misteri da svelare e nella fretta di leggere per rimettere a posto i tasselli mi è mancata l'attenzione. 
Forse nel turbinio degli eventi  l'autrice si è persa i dettagli, quelli che per me fanno la differenza di un testo dall'altro. Ma è un mio personale "punto di lettura".

E' un libro che comunque consiglierei a chi vuole immergersi in una storia come in un film. 

lunedì 28 ottobre 2019

Rubrica: Ci provo con ... " Chilografia" di Domitilla Pirro

Nuovo appuntamento con la rubrica a cadenza mensile "Ci provo con..." ideata da Chiara del blog "La lettrice sulle nuvole" in cui si legge un autore o un'autrice per la prima volta.

Avevo letto una recensione di Chilografia nel blog di La lettrice geniale e avevo messo il libro nella lista dei "da leggere" in Goodreads ed ecco che la rubrica mi ha dato l'occasione per avvicinarmi ad un'autrice che non conoscevo e ad un tema "ingombrante" come quello che ci viene proposto nelle 202 pagine.
Una storia che a fine lettura suggerisco solo a persone con stomaci forti.

Poi c'è una parola che è corpo ma si comporta da cosa. Palma.
Palma era: una bambina di undici anni, otto mesi e nove giorni, felice di cominciare le vacanze di Natale, figlia di Sauro e sorella di Clara...
Palma è: l'immobilità dei sassi di fiume, la durezza precaria di un gheriglio, la friabilità delle ossa vecchie, la vuota compostezza della lettera O. Accucciata ai piedi dei gradini con le mani sulle orecchie e gli occhi molto aperti. 



Trama
Questa è una storia fatta di chili: la storia di Palma, che cresce in una normalissima famiglia disfunzionale, tra una madre volubile, un padre lontano e una sorella fin troppo perfetta. Palma mangia, e nel suo turbolento percorso di formazione, in cui scorrono trent'anni di Roma e d'Italia, trova in un videogioco la via d'uscita dall'incubo delle relazioni, del giudizio, del peso. Attraverso il gioco scopre le chatroom: lì conosce Angelo, un ragazzo con la passione per le donne grasse, con cui inizia una storia vera e al quale ha il coraggio e la gioia di mostrarsi per come è. Ma non è facile distinguere l'amore dall'ossessione, e presto il rapporto con Angelo arriverà a farsi vessatorio. Palma saprà risolverlo a modo suo, mettendoci il cuore.


Cosa ne penso
Protagonista di "Chilografia" è Palma o Palla, come viene ribattezzata  dagli altri, ed i suoi  chili.  Il romanzo narra la sua storia dalla nascita violenta e prematura, provocata da un placenta previa, che la porta nel mondo con un peso inferiore alla norma, 1,8 chili,  fino all'epilogo finale, inverosimile e nello stesso tempo reale  e tangibile grazie alla scrittura della Pirro.
Leggere Chilografia è come fare un percorso, un cammino accanto a Palma senza avere la possibilità di toccarla, fermarla, gridarle "basta" perché la voglia di scrollare Palma, di abbracciarla l'ho sentita forte diverse volte durante la lettura mentre l'unica cosa che ho potuto fare  è stato andare avanti e avanti fino all'ultima pagina. 
I capitoli sono brevi, concentrati. In ognuno viene raccontato un  evento nella vita di Palma: la sua nascita, l'inizio della scuola, la separazione dei genitori, la morte del nonno, la cresima, la laurea, il tempo degli approcci nelle prime chat  e ancora il matrimonio della sorella e l'incontro con l'amore, Angelo:

Palma era una bestiola che doveva essere governata, perché c'era qualcuno finalmente che si occupava di lei e decideva cos'era che le faceva bene. Angelo questo lo spiegava in modo molto chiaro.

Palma ed il cibo. Palma che prende peso, schiacciata dall'anaffettività di una madre troppo concentrata sulla propria felicità, che fin da subito ci mostra come il cibo possa diventare il surrogato di tutto quello che non sappiamo donare in affetto, protezione ed attenzione.
Schiacciata dall'anaffettività della sorella, Clara, che descrive così l'arrivo di Palma:

Lei l'altra, il pezzo forte per l'appunto, ora sputazzante tra le braccia della madre; lei Palma, che detta così sembrava una piccola pianta ed invece era una piccola sorella, una piccola biglia di ciccia e bava e pochi denti, pochissimi.


Clara che sarà  il modello, tanto odiato, costantemente presente nella vita di Palma, giorno dopo giorno.  Schiacciata dall'anaffettività di un padre che dopo la separazione, fortemente sentita da Palma, lo avrebbe voluto vicino, sparisce.
Schiacciata  infine da un amore malato quello di Angelo che la porterà a far arrivare l'ago della bilancia fino al nr 147.

Il cibo è il filo conduttore di tutto il libro. Cibo, cucina, frigo, dispensa tutto questo è meglio di quello che circonda Palma fin da piccola. Il cibo e la solitudine di Palma, il suo non riconoscersi come persona, il percorso autodistruttivo, tutto questo viene raccontato con una scrittura brillante.

Se da un lato finire il libro, soprattutto nelle ultime pagine, mi è costato una vera  fatica fisica per le emozioni forti, viscerali che ho vissuto, dall'altro la scrittura della Pirro mi ha folgorato.
Capitoli brevi, frasi telegrafiche una dopo l'altra,  descrizioni concise. Ogni parola è essenziale e necessaria per rendere la carica emotiva che raggiunge l'apice nel finale, come un pugno nello stomaco.

Una nota per l'utilizzo del  "romano" nei dialoghi. Il romano scritto e letto, per me che sono romana, mi ha avvicinato  di più ai personaggi ma nello stesso tempo ha reso alcuni passaggi ancora più sguaiati, decadenti.
Ed un'ultimissima nota alla veste grafica, che ho trovato geniale.  I capitoli sono numerati con il numero segnato dall'ago della bilancia di Palma nel momento in cui viene raccontata. E così abbiamo il capitolo 1,869, il capitolo 19, il capitolo 37, e via via fino ad arrivare al 147.
Una vera e propria chilografia: una vita espressa in  chili.



A seguire il banner creato da  Dolci Carloni che ringrazio ed a seguire i blog che questa mese partecipano alla rubrica, andate a dare uno sguardo




La biblioteca del libraio
La lettrice sulle nuvole
Letture a pois
Libri al caffè
Made for books

domenica 13 ottobre 2019

Recensione: "Fuoco al cielo" Viola di Grado

Un libro potente, forte, visionario, un pugno allo stomaco che fa male ma che ci sveglia portandoci a  cercare gli accadimenti, i motivi, le ragioni nella storia non troppo lontana da noi.

" Lui si pulisce e finisce di preparare la valigia e se ne va, la porta si chiude, lei torna in cucina, prende il coltello da terra, basta un colpo secco, basta poco per togliersi di mezzo, fallo e basta, ma poi sente di nuovo quel suono, un sibilo, come un grido nelle ossa, come qualcosa che ancora chiede ascolto, e decide di restare viva, viva almeno un po', viva come adesso, cervello e battito cardiaco, basta questo per restare al mondo."



La trama 
Tamara e Vladimir vivono a Musljumovo, remoto villaggio al confine con la Siberia, tra caseggiati in rovina e fabbriche abbandonate. Vivono in un’area geografica per decenni assente dalle mappe: quella della “città segreta”, luogo sinistro da cui era vietato uscire e comunicare con l’esterno, responsabile negli anni ’50 e ’60 di ben tre catastrofi nucleari. Vladimir, infermiere di buona famiglia, è arrivato da Mosca, scegliendo di prendersi cura di chi non ha niente, delle persone dimenticate dal mondo. Tamara, insegnante, è invece nata e cresciuta nel villaggio, e abituata a pensare che ogni cosa sia destinata a contaminarsi e guastarsi velocemente. Incontrandosi, i due vengono sorpresi da una passione totalizzante che si appropria di ogni pensiero, e accende un bagliore salvifico persino lì, nel luogo più radioattivo del pianeta, in mezzo ai resti di una natura satura di veleno. Questo sentimento così tenace, che sembra schermarli dalle insidie del reale, li rafforza e li divora al tempo stesso, finché un evento prodigioso arriverà a sconvolgere le loro vite e le loro certezze.
Ispirato a un fatto di cronaca che ha disorientato il mondo, Fuoco al cielo racconta del male ubiquo che appartiene alla Storia ma che si rintana anche all'interno di ogni amore assoluto: perché la “città segreta” non è solo un luogo reale di distruzione e segregazione, ma anche il nodo più intimo e pericoloso di ogni relazione, dove i confini tra il sé e l'altro si confondono e può bastare una parola, un gesto, un grumo di silenzio per far crollare ogni cosa o metterla per sempre in salvo

La scelta del libro
Come quasi tutti gli ultimi libri che ho letto anche questo fa parte dei 6 libri, sezione narrativa, che partecipano al premio delle "Biblioteche di Roma" 2019.



Cosa ne penso
Viola di Grado lo dice subito, nelle prime pagine: "cervello e battito cardiaco, basta questo per restare al mondo" perché il romanzo può essere letto come un inno alla Vita nonostante tutto. Un inno alla Vita anche quando questa viene negata ed uccisa, perché se la tua identità viene violata, se la tua storia viene cancellata, se intorno a te la morte vive a braccetto con gli uomini allora se hai ancora un cervello ed un battito cardiaco sei fortunato, sei vivo. 
Oppure un inno alla morte, una morte decisa deliberatamente, consapevolmente dai pochi che nel mondo decidono le sorti dei molti, senza coscienza, senza memoria storica. 

Protagonisti di questo romanzo sono Tamara, Vladimir ed il loro amore. 
Un amore malato che nasce e cresce nella "città segreta", un luogo di cui non conoscevo l'esistenza prima di questa lettura.  
La città segreta o chiusa di cui ci parla Viola di Grado è  Musljumovo, una delle tante città segrete esistenti in Russia create nel periodo della guerra fredda. In questo territorio, che  è ancora oggi uno dei luoghi più inquinati al mondo, sorgevano ben cinque reattori nucleari all'uranio moderati a grafite, destinati alla produzione di plutonio. 

"La città segreta era recintata, come le fortificazioni medioevali che mettevano al riparo dai nemici. Ma il nemico era lì dentro, in quelle strade, erano cesio e stronzio e plutonio, polveri invisibili che saturavano l'aria, ammorbavano i fiori, si accasavano nei polmoni. Dentro la città segreta c'erano quasi tutti i materiali nucleari della Russia. 
Un tesoro di morte custodito in silenzio"

In quest'area ci furono tre disastri nucleari. Il più violento fu quello del 29 settembre 1959 e da qui, da questa data ed in questi luoghi si svolge il racconto di Fuoco al cielo il cui titolo è per l'appunto la descrizione di ciò che videro i cittadini subito dopo l'esplosione: "il cielo luccicava oltre la finestra chiusa. Verde acido, verde scuro, indaco, verde prato  sbiadito. Un arcobaleno sinistro aveva acceso la notte. Il verde era dappertutto. Aumentava, pulsava, come se il cielo si fosse fatto più vivo e sofferente." 


Tamara è nata e cresciuta nella città segreta, Musljumovoun villaggio di contadini, un luogo dove le persone più povere e quindi deboli venivano portate e pagate, con un sussidio statale, per restare, per non parlare,  per dimenticare la loro identità e diventare numeri. Un luogo in cui si entrava e si usciva solo con un pass ma in cui non era possibile entrare. Un luogo dove uomini, donne, bambini avevano ed hanno un: "DNA marcio, un albero che ha succhiato plutonio"
Vladimir invece è un infermiere benestante che decide di andare a Musljumovoun per aiutare, perché buono. 
"Ed era buono perché non era povero. Quando hai soldi puoi curarti di cose come l'anima o il giardino"
I due si incontrano in una mensa e si innamorano, di un amore forte, potente, esplosivo e malato come malato è il luogo in cui vivono, il cibo che mangiano, l'aria che respirano.  Tutto intorno a loro è contaminato, decadente, usurato, consumato, destinato a morire, il paesaggio naturale, la foresta, il fiume, la natura malata nella sua bellezza che è come un quadro in un museo che non si può toccare. 



Un amore fisico che solo così sembra potersi affermare perché l'unico modo, che Vladimir e Tamara hanno per esistere è viversi attraverso il corpo, usandolo anche in modo violento, consumandolo, violandolo. 
Durante la lettura ho sentito molto forte la fisicità del libro. 
Un libro fisico lo definisco dove attraverso il corpo si afferma la Vita: cuore, polmoni, sesso, come se  nella città segreta fosse possibile esistere solo così. Vietato sentire le emozioni, vietato farsi domande, vietato rispondere alle domande, "rispondere alle domande rendeva quei corpi persone" vietato dare un'identità, vietato amare, sognare, credere nei sogni. E nello stesso tempo attraverso il corpo si vedono i segni del male ubiquo "diabete, paralisi, ossa fragili e cuori invasati. Gambe molli, bolle sulle guance, polmoni grigi guasti".
Tamara e Vladimir sono i simboli della Vita malata vissuta nella "città segreta".

I due protagonisti vivono in questa realtà malata, in un amore vuoto, fino a quando un evento impensabile, incredibile, un dono inatteso entra nelle loro vite.
Un evento che porterà Tamara a credere ancora in quel Dio che ha dimenticato la sua terra, che la porterà a ripetere costantemente come un mantra: "andrà bene, andrà tutto bene; tutto bene" ed in questa ultima parte ho trovato la parte più visionaria della scrittrice


Viola di Grado ha una scrittura asciutta, diretta, immediata che raggiunge il lettore quasi "violentandolo". Ogni cosa è narrata senza abbellimenti, senza fronzoli senza fare sconti. Il lettore viene  inchiodato davanti all'abominio umano e non si può tirare indietro bisogna continuare a leggere ad andare avanti per sapere dove,  quando e se finirà.   
Un libro che ci tira fuori dalla nostra zona comfort, che non permette di chiudere gli occhi per credere che non è accaduto, che costringe il lettore a farsi domande ed a cercare risposte. 




domenica 6 ottobre 2019

Recensione: "Il fruscio dell'erba selvaggia" di G. Munforte

La recensione di questo libro sarà breve e laconica, come è stata la lettura: vuota. 






La trama

Romanzo dalla struttura inedita, composto da sequenze narrative che si intrecciano e risolvono, alla fine, in un quadro unitario, "Il fruscio dell'erba selvaggia" - il titolo viene da un verso di Evtushenko - tesse i destini di personaggi che, sullo sfondo di una Milano periferica, cupa e malinconica, vivono un'esistenza in cui innocenza e crimine, onore e vergogna, redenzione e autodistruzione si rovesciano continuamente, come guanti di cui è impossibile distinguere il diritto e il rovescio. Nella prima parte, intitolata "Nero uno", il suicidio dell'amato zio - un uomo che, dopo aver abbandonato moglie e figli, viveva ai margini della legge nel quartiere della Bovisa degli anni Sessanta - turba al tal punto il narratore da spingerlo a indagare sulla sua vita. La scoperta di un insospettabile alter-ego dello zio lo segnerà profondamente, portandolo a una scelta decisiva per il suo futuro. La seconda parte, "Nero due", è il fulcro del romanzo. La scena si sposta in un ospedale degli anni Novanta in cui un ragazzo fraternizza con un uomo che genera in lui curiosità e fascinazione. 

Questi gli racconta la sua vita prima di orfano cresciuto dai frati, poi di criminale; di lí a pochi mesi lo trascinerà in una vicenda nella quale il ragazzo, in nome dell'amicizia nata in corsia, metterà a rischio la propria vita. In "Nero tre" il romanzo giunge al suo epilogo, offrendo i tasselli esplicativi dell'intera narrazione. L'originale disposizione narrativa scelta da Munforte alimenta il forte senso di inquietudine che pervade questo romanzo che, al pari di un dipinto di Hopper, intreccia la solitudine umana alla metafisica del paesaggio. Con una scrittura capace di farsi concitata nei momenti di tensione, e lirica e poetica in quelli di introspezione psicologica, "Il fruscio dell'erba selvaggia" mostra una galleria di personaggi indimenticabili - le ambigue figure dello zio e del frate e quella del giovane segnato da un destino inaggirabile di violenza ed emarginazione - in cui la vita si offre nell'assoluta contingenza delle scelte e nell'irrisolvibilità del suo mistero.



La scelta del libro
Anche questo libro è stato scelto tra i sei in lizza per il "Premio biblioteche di Roma" 2019, sezione narrativa, ma questa volta non sono stata fortunata.


Cosa ne penso
Comincio subito col dire che il breve romanzo, 144 pagine, non mi è piaciuto.
Le uniche note positive che mi hanno permesso di completare la lettura sono state: la brevità del romanzo e la scrittura chiara, diretta, sia nei dialoghi che nelle descrizioni. In questo Munforte ha delle potenzialità che non sono bastate per sollevare il romanzo.

Per tutto il resto, a mio avviso, il testo rimane incompiuto e carente. Non mi è piaciuta la storia, non mi è piaciuta la costruzione, non mi ha lasciato nulla, solo la sensazione di aver perso tempo che avrei potuto dedicare ad altro.
Soprattutto la costruzione narrativa, che dovrebbe fare la differenza e l'originalità, non mi ha convinto, anzi genera confusione. Il lettore per rimettere a posto i pezzi ed avere il puzzle  completo deve tornare indietro e avanti e poi di nuovo indietro e nonostante questo io non sono riuscita a tirare i fili della storia per annodarli in una fine compiuta.

Non è un giallo, non è un thriller, non è un poliziesco è uno spaccato, non riuscito, di un'umanità in declino, di un ambiente che contribuisce a questo declino ma che alla fine non trova una sua evoluzione e quindi non affronta neanche i temi decantati nella sinossi.
Un solo tema emerge con forza: il rapporto anzi il non rapporto con la fede, una fede che non ha spazio nello spaccato descritto da Munforte, un Dio che viene ucciso  dalle azioni e dai pensieri dei personaggi.
Chiusa l'ultima pagina ho tirato un sospiro di sollievo per essermi liberata del "Fruscio dell'erba selvaggia".


Allego il link dell'incontro che c'e stato tra l'autore ed i circoli letterari delle biblioteche di Roma, incontro svoltosi presso la biblioteche "Nelson Mandela" giovedì 03 ottobre 2019:


sabato 28 settembre 2019

Recensione: "Il meraviglioso viaggio delle piante" S. Mancuso

Eccoci per la rubrica a cadenza mensile "Ci provo con..." ideata da Chiara del blog "La lettrice sulle nuvole" in cui si legge un autore o un'autrice per la prima volta.


Il libro di cui vi parlo questa volta, che definisco un piccolo scrigno, è un saggio di Stefano Mancuso, neurobiologo di fama mondiale. 




La scelta del libro: 
Il libro partecipa, per la sezione saggistica, al premio biblioteche di Roma  e visto che era l'unico, dei 12 in lizza per il premio, disponibile nella mia biblioteca  "Franco Basaglia" l'ho preso in prestito senza tanta convinzione.  
L'impossibilità di scegliere è stata in questo caso la mia fortuna.



Cosa ne penso:
Mancuso utilizza un linguaggio semplice, chiaro fruibile da tutti e questo è stato un elemento che ho molto apprezzato perché se fosse stato un saggio troppo scientifico credo che non sarei arrivata neanche alla metà.
Ho parlato di scrigno perché pagina dopo pagina ci viene offerta una descrizione  dell'intelligenza delle piante che  ha dell'incredibile. 
Mancuso lo dice chiaro senza mezzi termini:
"Ciò che conosciamo delle piante è molto poco e, spesso, questo poco è sbagliato."

Attraverso i 6 capitoli ci vengono offerte le strategie, le tecniche, i mezzi con cui il mondo vegetale sopravvive  ai cambiamenti dell'ambiente, si diffonde colonizzando nuove terre, resiste a situazioni estreme. 
Leggere i modi con cui le piante sanno trovare soluzioni mi ha fatto pensare che noi uomini dovremmo imparare da loro mettendoci in uno stato di paziente osservazione e perché no di ammirazione.



Ci sono piante "Pionere, reduci e combattenti" che riescono a vegetare in quei posti dove l'uomo non può più vivere. Un esempio per tutti: Cernobyl (1986)  è oggi il luogo con la maggiore biodiversità: 
"Questo spazio inaccessibile all'uomo  è oggi uno dei territori e maggiore biodiversità dell'ex Unione Sovietica. Sembra che l'uomo sia molto più nocivo delle radiazioni. L'esclusione dell'attività umana da queste aree ha infatti creato un'enorme riserva naturale involontaria"
Hiroshima, qui  ci son alberi reduci che sono ancora vivi nel luogo in cui è caduta la bomba atomica. 

Ci sono piante "Fuggitive, conquistatrici"  che colonizzano nuovi mondi, nuove terre in  modo inarrestabile attraverso la diffusione dei loro semi per via aerea, via mare, attraverso l'utilizzo degli animali e dello stesso uomo.
Mancuso prende ad esempio due prodotti che sono diventati simbolo dell'Italia in tutto il mondo: il basilico ed il pomodoro, rispettivamente originari delle zone centrali dell'India e del Messico, che arrivarono in Italia in tempi antichi e che oggi sono italiani DOP. 
Le piante sono le vere colonizzatrici perché arrivano nei nuovi territori e si ibridano con le piante locali per poter meglio sopravvivere e quindi diffondersi.
Come dice Mancuso la vera globalizzazione è delle piante che non conoscono dazi, confini, barriere. 

Ci sono piante  "Capitani coraggiosi"  che dedicano ai loro semi delle cure parentali custodendo e conservando i semi all'interno della pianta madre per poterli rilasciare quando ci sono le condizioni favorevoli, come fanno gli animali con la propria prole. Ed i semi a loro vola imparano, nella madre, i cicli di vita (siccità, piogge) per poter poi sopravvivere.

Ci sono piante "Viaggiatrici del tempo"  i cui semi si sono conservati  per secoli nei reperti archeologici o dentro al ghiaccio e che in alcuni casi conservano ancora la vita per poter germinare. 

E ci sono  gli "Alberi solitari" il capitolo che ho trovato più bello, con le storie dei  tre alberi solitari sparsi nel mondo (l'albero di Campbel Island, l'acacia di Téneré, l'albero della vita del Bahrein) che hanno dell'incredibile perché vivono e resistono in posti  inospitali ed inaccessibili, in condizioni impossibili ma continuano a vivere. 
Mancuso ci dice: "Nonostante l'albero solitario rappresenti addirittura un topos letterario, simbolo della persona che, malgrado tutto,  resiste indomita agli strazi dell'avversa fortuna, come tanti altri dei nostri luoghi comuni si basa su presupposti del tutto sbagliati. Se ci si pensa attentamente, infatti, un albero solitario non dovrebbe esistere. E' un controsenso."

Bellissima e tristissima la storia dell'Acacia di Téneré che mi ha colpito. Sopravvissuta al deserto, nel deserto, perché le sue radici raggiungevano una falda nel sottosuolo profonda 33- 36 mt, cadde per l'idiozia dell'uomo: un camion diretto a Bilma vi finì contro, uccidendo l'Acacia, nonostante avesse abbastanza spazio per evitarla.






Consiglio il saggio di Mancuso a tutti, lo consiglio soprattutto per le scuole, sarebbe una lettura perfetta per stimolare la voglia di conoscere.
Lo consiglio perché ci spinge ad una riflessione forzata sul ruolo distruttivo che ha l'uomo e perché  ci aiuta a guardare il mondo vegetale con altri occhi e quindi con un altro rispetto. 
Chiudo con una nota sulla grafica del romanzo visto che tra una pagina e l'altra ci sono degli splendidi acquerelli di Grisha Fischer.





Ed ecco gli altri blog che partecipano alla rubrica andate a curiosare:





giovedì 12 settembre 2019

"La Porta" Magda Szabó

"Emerenc non ha bisogno di una vita qualunque. Emerenc ha bisogno della sua vita. Quella che ormai non c'è più"



La trama


È un rapporto molto conflittuale, fatto di continue rotture e difficili riconciliazioni, a legare la narratrice a Emerenc Szeredàs, la donna che la aiuta nelle faccende domestiche. La padrona di casa, una scrittrice inadatta ad affrontare i problemi della vita quotidiana, fatica a capire il rigido moralismo di Emerenc, ne subisce le spesso indecifrabili decisioni, non sa cosa pensare dell'alone di mistero che ne circonda l'esistenza e soprattutto la casa, con quella porta che nessuno può varcare. In un crescendo di rivelazioni scopre che le scelte spesso bizzarre e crudeli, ma sempre assolutamente coerenti dell'anziana donna, affondano in un destino segnato dagli avvenimenti più drammatici del Novecento.


Cosa ne penso 


Devo subito dire che questa lettura mi ha coinvolto tenendomi attaccata alle pagine. Inizialmente ho fatto fatica perché la scrittrice usa  pochissimi dialoghi, tutto quello che i personaggi si dicono viene spesso riassunto come se non si trattasse di un dialogo bensì di une descrizione. Lasciata la titubanza iniziale, che dura qualche pagina, si entra immediatamente in intimità con il libro e non si potrà fare a meno di leggere e leggere per scoprire la storia e dissipare l'alone di mistero che imbriglia il lettore già con la prima confessione della voce narrante:

"Nella mia fede non esiste la confessione individuale, noi riconosciamo di essere peccatori per bocca del pastore e di meritare il castigo perché abbiamo infranto in ogni modo possibile i comandamenti. E riceviamo il perdono senza che Dio esiga da noi spiegazioni o particolare. Io invece li fornirò"

La confessione non è altro che la ricostruzione del rapporto complesso tra le due protagoniste: la scrittrice ed Emerenc. 
Un rapporto fatto di attacchi e gentilezze, di incomprensioni, di attenzioni ed allontanamenti di amore mai espressamente dichiarato. 
Io stessa ho provato sentimenti ambivalenti per l'una e per l'altra, in modo alternato e mai univoco. 
Mi sono lambiccata il cervello per comprendere il perché di alcuni comportamenti da una parte e dall'altra senza trovare immediatamente risposte. Così mi sono disposta con l'animo in ascolto per cogliere ogni sfumatura che l'autrice ci offre nelle pagine in cui emerge con prepotenza e delicatezza, in un gioco dei contrari, la figura di Emerenc, l'anziana signora, provata dagli eventi, con un segreto da tenere ben nascosto. 

Emerenc arriva nella grande casa, dove si sono da poco trasferiti la scrittrice ed il marito, per occuparsi di tutte le attività domestiche, oltre a svolgere il lavoro di portierato nel quartiere in cui vive. 

La Szabó costruisce con le parole uno splendido ritratto di Emerenc e subito appare chiaro al lettore che questo personaggio è scomodo. Emerenc ci obbliga ad uscire dalla comodità del nostro pensiero per condurci verso un mondo apparentemente incomprensibile ma che si rivelerà  fedele a sé stesso, integro ed incredibilmente semplice:

"Si prese cura di noi per oltre vent'anni, ma i primi cinque stabilì una distanza di sicurezza che non potevano oltrepassare"

"Il mondo di Emerenc ammetteva solo due categorie di uomini, chi maneggia la scopa e chi non lo fa, e da chi non scopa ci si può aspettare di tutto."

"Emerenc era nata Mefistofele, negava tutto."

"Emerenc, con la fronte perennemente coperta, con il viso liscio come la superficie di un lago, non aveva mai chiesto niente a nessuno, bastava sempre a sé stessa, così si era accollata i pesi degli altri senza mai dire quello che pesava a lei." 


In questo quadro un ruolo importante hanno gli animali che offrono al lettore una faccia dell'amore di Emerenc. 
Un cane trovato dalla scrittrice e dal marito in un giorno di neve che Emerenc chiamerà Viola, nonostante sia un maschio. Viola viene salvata dalla scrittrice, vivrà con lei ma sarà in simbiosi con Emerenc che lo educherà a modo suo. Viola è spesso l'oggetto di discussione tra le due e motivo di gelosia da parte della scrittrice, per la devozione incondizionata di Viola ad Emerenc. 
Ed i gatti ben otto che vivono con Emerenc, la loro salvatrice, custodendo il segreto. 

Perché Emerenc ha un segreto: non apre a nessuno la porta della sua casa,  lo farà solo alla scrittrice, per cui proverà un amore forte, viscerale paragonabile a quello tra una madre ed una figlia e questo amore sarà la causa dell'evento drammatico  che le colpirà involontariamente. 
Il modo di amarsi di entrambe è sempre inconciliabile, mai armonico, ognuna con il proprio bagaglio di vita troppo ingombrante per farle avvicinare, che le tiene emotivamente distanti. 

L'apertura della porta sarà la dichiarazione d'amore e di totale fiducia di Emerenc e la dichiarazione d'amore della scrittrice che si fa aprire per salvare l'anziana donna, che decide di varcare quella soglia e di entrare nel mondo di Emerenc ma senza averlo prima compreso pienamente. 

Questo gesto che sembra l'unico momento di incontro tra le due sarà anche il punto di non ritorno, una linea immaginaria che divide in due il libro e ci da la chiara portata della splendida scrittura della Szabó. 



La porta è un simbolo carico di significati che conduce il lettore a diverse riflessioni. 

La porta chiusa è il simbolo del limite che non deve essere oltrepassato per evitare di perdere definitivamente il rispetto per l'altro.
La porta chiusa preserva la vita, la forma di vita che Emerenc ha scelto per sè.
La porta aperta, chiusa è il simbolo delle scelte che ognuno fa, per sè, per l'altro e che inevitabilmente portano ad un cambiamento, anche se la portata del cambiamento non è chiaro finché non si sceglie e sarà per le protagoniste devastante, sarà una sconfitta.
La porta divelta è il simbolo del fallimento di tante azioni fatte in nome di quell'amore che dovrebbe essere protetto, custodito, rispettato con delicatezza e profonda comprensione e non violentato, usurpato, devastato. 
L' assenza della porta è il simbolo del tradimento che viene perpetrato in nome dell'amore.

"Emerenc voleva abbandonare questo mondo dopo che le avevano distrutto l'intelaiatura che reggeva la sua esistenza e la leggenda aleggiante intorno al suo nome."

Scoprire questa autrice mi ha reso più ricca. 
Un libro unico ed imperdibile scritto in modo impeccabile, di cui consiglio caldamente  la lettura. 

domenica 18 agosto 2019

"La custodia dei cieli profondi" di Raffaele Riba - Premio biblioteche di Roma 2019 - sezione narrativa


"Tuttavia, capire cosa succede in cielo sarà più facile che ricostruire cosa è successo qui, su questa porzione di terra che, una volta, aveva una densità di persone e di legami che ne facevano una casa. Questa è una sapienza da raggiungere studiando il dolore, qualcosa che ha a che fare con la dispersione." 





La trama qui 


Cosa ne penso

Ho deciso di leggere questo libro,  come per "La botanica delle bugie", perché fa parte dei sei libri del  "Premio biblioteche di Roma 2019"   sezione narrativa.
Mi sono avvicinata al romanzo con un po' di diffidenza perché letta la trama non né sono rimasta colpita e perché  l'idea  di leggere qualcosa che si collega all'astronomia, che  occupa un posto di rilievo nel romanzo, mi ha fatto storcere il naso. Poi nel corso della lettura mi sono ricreduta, almeno in parte.

Il libro è il racconto in prima persona di Gabriele, un racconto che da subito non è semplice, non è comodo per chi legge perché Gabriele affronta un tema profondo, complesso e permettetemi il termine ineluttabile: la dispersione.

Il racconto di Gabriele che si sviluppa con dei passaggi repentini, segnati al lettore da un evidente cambio di paragrafo,  dal presente al passato, dall'interiorità alla descrizione dei puri fatti, non è altro che una ricostruzione del processo di dispersione che investe ogni cosa in ogni dove e prima davanti a tutto la dispersione del suo legame di fratellanza che sembra dissolversi piano piano senza che lo stesso protagonista se ne renda conto.

La ricostruzione degli accadimenti è inesorabile e necessaria direi per spiegare l'evento finale che rimane tale fino alle ultime pagine ma che è anche il punto di non ritorno da dove ha inizio la storia. 

Il racconto  inizia dall'origine nel "tempo anteriore", così lo intitola Riba il primo capitolo,  con la descrizione della nascita della casa di famiglia, Cascina Odessa costruita dal nonno di Gabriele, dove Gabriele ed il fratello minore Emanuele insieme al padre ed alla madre hanno vissuto la loro infanzia, l'adolescenza fino all'inizio dell'università. 
Una casa piena di ricordi e di vita: "Ho abitato Cascina Odessa per più di trent'anni, salvo qualche breve intervallo. Io derivo da questo posto e per ogni cosa fatta dopo sono partito da qui.... Voglio solo dire che la casa è pelle, che la casa è cognizione, che la mia casa è un modo che ho per dire qualcosa di me". 
E inizia anche con l'arrivo di una supernova che crea un cielo con due soli, sospendendo il tempo ed il ciclo circadiano. 
La casa è la supernova sono  presenti, quasi come due protagonisti, nel racconto che fa Gabriele. 




La dispersione è il tarlo, la costante nei pensieri di Gabriele: la dispersione della sua famiglia, la dispersione della casa, la dispersione dell'energia  che avviene attraverso le cose umane, la dispersione delle relazioni, la dispersione del rapporto di fratellanza con Emanuele così fortemente sentito: 
"Mio fratello mi ha pacificato e calmato quando lo vedevo piccolo e armonico, mi ha reso apprensivo quando a distanza lo vedevo interagire con il mondo, mi ha fatto pensare di poter morire per lui, mi ha reso nervoso fino allo stremo, mi ha reso furioso, mi ha reso violento e cattivo. Ogni sentimento una diversa frequenza di battito. Sembra strano che sia accaduto tutto nello stesso cuore" 



Ma soprattutto la dispersione di Gabriele: 
"All'inizio mi hanno chiamato figlio, poi fratello, poi il Custode; infine l'Eremita o il Matto. E' stato un processo lento e graduale, questo disperdersi verso il non me.."

La dispersione narrata da Raffaele Riba è un fatto concreto, in questo devo fare i complimenti allo scrittore per aver saputo rendere così tangibile, reale un processo intoccabile, inconsistente eppure così presente sotto gli occhi di tutti nei gesti quotidiani. 
La narrazione crea spesso un tempo denso, come dice lo stesso Gabriele quando va a ricordare: "un tempo che mi sembra denso da morire" un dolore palpabile. Immergermi nella lettura mi ha fatto cadere ogni volta in questa sensazione densa, mi sono invischiata nella malinconica solitudine di Gabriele, nel suo percorso  del dolore.

Ma la dispersione è anche il processo che  fa risaltare l'attaccamento e la necessità di resistere attraverso la cura: 
"La cura, già, ci ho riflettuto spesso questi ultimi tempi. E sono arrivato a pensare che sia un segreto che infatti non viene tramandato di bocca in bocca. Va di pena in pena. Le persone che curano - animali, piante o una scala - sono le uniche resistenze di cui il mondo dispone contro la dispersione."

Gabriele diventa così il Custode di ogni elemento che riguarda la sua Vita. In primo il Custode della casa, visto che Emanuele se ne andrà per studiare e tornerà sempre meno. Il Custode dei ricordi, dei legami passati in una lotta invincibile e ossessiva contro la dispersione, come Sisifo:
 "Ti sei sforzato, hai mantenuto, ti sei opposto all'usura, al tempo, alle condizioni avverse. Hai remato contro, hai manomesso il disordine cercando uno schema umano, quello della pulizia, della geometria e della preservazione. Ma eri destinato a fallire..."
Perché la cura preclude che ci sia qualcuno con cui condividere, qualcuno che né benefici, qualcuno che né prenda parte, altrimenti tutto è vano: 
"Ho costruito una scala di pietre e cemento, ho rivoltato il terreno ogni anno, ho fatto crescere un coltivato migliore. Ho preso degli animali  al mercato di Fossano. E' stato così perché così doveva essere, perché credevo che anche  il posto in cui si vive avesse bisogno di una generazione che ne segue un'altra. E che migliora... Ma ci deve essere qualcuno che lotta con te o che ne benefici. Altrimenti sei il Matto che continua a spazzare delle scale su cui non salirà più nessuno."

Così quando Gabriele si rende conto di essere solo, quando anche il rapporto di fratellanza cede con un ultima decisione  di Emanuele, Gabriele si arrende:
"Ora però non è più tempo di lottare contro il disordine" e "Così ho mollato tutto. E ho avuto chiara la mia vita. Dov'era cominciata. La fratellanza. Dove era andata a depositarsi. La custodia. E infine dove sarebbe andata a finire: il cedimento, la resa..."


Devo ammettere che questa lettura mi ha coinvolto, mi ha fatto riflettere e mi ha sospeso in un tempo dedicato alle  domande  interiori. Questo tempo iniziava ancora prima dell'atto di leggere, nell'istante esatto del prendere in mano il libro  e prepararmi all'immersione. 
Un libro che non consiglierei a tutti perché  porta inevitabilmente il lettore ad amalgamarsi  nel dolore, nella tristezza, nella densità delle sensazioni profonde.


Un'ultima nota alla veste grafica di Silvana Amato che  ho molto apprezzato per la leggerezza e l'eleganza che dona al volume.  


venerdì 9 agosto 2019

"La botanica delle bugie" Elisa Casseri - Premio biblioteche di Roma 2019 - sezione narrativa



"E poi sii  grafite, aragonite, zircone, sii China Martini oppure sii uno che vuole stare da solo. Sii una vecchia bulimica, un padre perfetto, un separato mai divorziato che ama sua moglie o uno che è capace di amare solo se stesso, sii quello che ti pare, non importa, basta che ti scegli una forma e che le dai fiducia"


Cosa ne penso

La scelta di questo libro è stata "casuale" nel senso che era l'unico libro disponibile tra i 12 candidati del "Premio Biblioteche di Roma 2019-20"  che sono messi a disposizione del Circolo di Lettura presso la   biblioteca Franca Basaglia di cui faccio parte.

Parlare di questo libro non è facile perché durante le 300 pagine ho avuto sentimenti contrastanti.
Leggere "La botanica delle bugie" richiede una chiave di lettura. Una volta che si è compreso come funziona allora se ne può apprezzare anche la lettura. 

Tutto quello che ho provato prima della scoperta è stato fastidio e voglia di capire. 
Fastidio perché la Casseri srotola la storia dei quattro personaggi, Nicola, Quirino, Caterina, Giorgio, in un arco temporale che va dal 1993 al 2018, dall'amicizia che inizia da bambini alla maturità, senza consequenzialità utilizzando  tecniche narrative diverse: in prima persona, in terza persona, il racconto corale, spiazzandomi. 

Finché non ho scoperto la chiave ho provato una forte indisposizione per il modo in cui viene trattato il lettore all'inizio di ogni capitolo dove non si riesce a capire chi sta parlando o di chi si sta parlando. Questa scelta della scrittrice obbliga il lettore, almeno a me è successo così, a tornare indietro per rileggere le pagine e riuscire a dare il giusto posto agli eventi ed ai personaggi.
Nello stesso tempo, visto che sono una  lettrice testarda e odio lasciare i libri a metà, la voglia di trovare il perché di queste scelte, mi ha spinto a proseguire nella lettura.
Ed ecco che la tenacia mi ha premiato, scoperta la chiave sono riuscita a leggere la restante metà trasformando il fastidio e l'indisponenza in empatia e desiderio di leggere e leggere per arrivare alla fine. Ho instaurato quel rapporto intimo e personale, speciale con il libro, che voi lettori conoscete bene. 

La Casseri struttura il romanzo in quattro fasi, legate alle fasi di crescita delle piante. All'interno di ogni fase ci sono quattro capitoli in cui ognuno dei quattro personaggi o più di uno narra le sue false verità e tutto viene organizzato e ripetuto secondo una sequenza sempre uguale. Ma non voglio svelare  nulla di più, nel caso qualcuno di voi decidesse di leggerlo.


Nicla, Quirino, Caterina e Giorgio,   sono un noi, un ingranaggio complesso fatto di amicizia, amore, gelosia, incomprensione, bugie, verità, fatto di genitori, schemi, giudizi. Ma sono anche e soprattutto un io, individui  che alla fine  ammettono, ognuno a suo modo, di non aver mai scelto la loro amicizia, ci si sono ritrovati dentro,  di  non aver scelto la relazione in cui si trovano, di aver lasciato che le scelte fossero dettate da altro. 

Il problema di tutti i personaggi è di non saper scegliere, non sapersi dare una forma, una qualsiasi, non sapersi riscattare, affrancare, definirsi e così all'interno del noi formato dalla loro amicizia ognuno prenderà una strada non scelta, ognuno vivrà secondo una bugia raccontata agli altri ed a se stessi. 

E cosi abbiamo Nicla, a cui piace Quirino ma che  avrà un figlio, da giovanissima, con Giorgio. 
Che vive con una profonda perdita: il padre scappato e mai più tornato di cui scoprirà il segreto solo dopo la sua morte. Che non riuscirà a portare a compimento gli studi, che non vuole essere come la madre e la nonna, con cui vive,  ma che alla fine ripercorrerà le stese orme, che si vergogna di ciò che ha e di ciò che è. Che si sente continuamente in errore, l'errore per ciò che accade intorno a lei.
"Sei tutte queste ombre che non riescono a rimanere della loro forma intanto che il giorno procede per la sua strada" 
"Esiste una sola forma di difesa da questo senso di abbandono, dall'essere preda continua delle scelte degli altri su di te, un'unica maniera per non sentirsi costantemente soli ed è di decidere di esserlo: la solitudine consapevole come tentativo di equilibrio. "
L'amicizia adolescenziale con Caterina, che invidia e Quirino, sembra temporaneamente riscattarla dalla condizione  di isolamento. 

Abbiamo Quirino sposato con Caterina,  a cui piace Nicla. 
Indolente, fedifrago che deve affrontare la morte improvvisa del padre, poco dopo la morte della madre Viola, con cui non parlava da quasi un anno ed i segreti portati alla luce dopo  tale perdita. Che ammette di essere sempre stato con Caterina, da quando erano piccoli e quindi probabilmente di non averla scelta. Che dopo la morte del padre cade in un immobilismo 
"Mi sembrava un suicidio cercare di cambiare, impegnarmi per essere decisionale, vivace, un osservatore attento e suscettibile. Ho sempre lasciato che i miei rapporti andassero così come dovevano, senza mai strappare o ricucire, senza salvare o abbandonare" 


C'è Caterina che sembra avere il ruolo migliore, scelta da Nicla, scelta da Quirino e scelta da Giorgio ma che si scoprirà anche lei vittima delle sue stesse bugie.

Ed infine Giorgio di cui ci viene detto poco, l'unico a non avere un capitolo dedicato, che si ritrova padre troppo giovane ed innamorato di Caterina. 

E poi c'è tutto il mondo che li circonda: Rita la mamma di Nicla, Maria la nonna, Andrea la figlia di Nicla; Viola la mamma di Quirino ed il padre.


Le pagine descrivono con un ritmo serrato  la complessa relazione di ognuno con l'altro. Una disamina senza fronzoli e abbellimenti. 
E forse le scelte tecniche della Casseri, che ho pienamente apprezzato chiusa l'ultima pagina, servono per restituire al lettore un  racconto corale, un affresco di vite che si appartengono: "il fuoco della nostra famiglia non è mai stato la capacità di resistere, anzi: siamo, più, gente che si appartiene, spesso senza saperlo, a volte senza volerlo, ma più di tutto senza preoccuparsene

Interessante il concetto del noi che viene offerto sotto diverse prospettive: c'è il noi di Nicla e Caterina amiche, nemiche; c'è il noi di Quirino e Giorgio amici ma mai fino in fondo; c'è il noi di Caterina e Quirino che fallisce; c'è il noi di Nicla e Giorgio anche questo destinato a fallire ma che ha creato Andrea la loro figlia. C'è il noi di Caterina e Giorgio che potrebbe funzionare ed il noi, forse, di  Nicla e Quirino.

Ed infine c'è il non noi: "Non c'è mai stato nessun noi, per noi: ci sono sempre stati un sacco di io e un sacco di tu, troppi lei, tantissimi lui, molti voi, bperfino qualche loro, ma non c'e mai stato nessun noi" 

Ho trovato la scrittura  e la costruzione del romanzo geniale. 
Un libro che non consiglierei a tutti ma che lascerà il segno a chi deciderà di leggerlo.